Il decano dei lucani a Milano. La storia di Giunio Martino, il nipote di Alessandro Volta

Quasi un secolo fa, alla fine degli anni venti, l’ufficio anagrafe di palazzo Marino contava meno di duecento milanesi nati in Basilicata. E tra questi pionieri della grande fuga verso il nord c’era un uomo di grande personalità, certamente il decano dei potentini a Milano, un potentino davvero speciale che ho avuto il privilegio di conoscere poco prima che lasciasse questo mondo.
I miei appunti di cronista mi restituiscono i particolari di un incontro davvero singolare.
È il Febbraio del 2001. Una calda giornata di sole di quelle che non ti aspetti. Giunio Martino, avvocato, classe 1908, mi riceve nella sua bella casa di Corso Venezia, e subito mi sorprende.
“Ah, lei è Candore!”. Incredibilmente, dopo più di settant’anni di assenza, conserva quella parlata potentina di cui la sostituzione della “t” con la “d” è il principale segno distintivo, e mi sottopone immediatamente a uno spericolato tuffo nei ricordi sfidando, con la sua incredibile memoria di novantatreenne per nulla stanco della vita, addirittura la mia conoscenza dei nomi delle strade della città in cui vivo.
Giunio Martino sgrana gli occhi vispi dietro gli spessi occhiali e continua ad accarezzarsi il pizzetto candido e ben curato, mentre comincia a inseguire i ricordi. Nono di dodici figli, padre avvocato di simpatie socialiste, madre farmacista con forte sensibilità sociale, Giunio è stato quello che una volta si definiva un bambino prodigio. A quattro anni era già alla scuola elementare, a nove al primo ginnasio, a diciassette, con un brillante diploma di maturità classica, era già pronto per il grande salto nella metropoli lombarda. Ad accompagnarlo a Milano per l’iscrizione all’Università la madre, Concetta Astarita, origini napoletane e un carattere forte e volitivo. Giunio parla di lei con un misto di rispetto e ammirazione, e mi mostra una vecchia foto. Ritrae la signora Concetta a Castel Lagopesole in mezzo a un gruppo di donne e uomini in abiti da lavoro nei campi. “Era la madrina di una cooperativa di contadini – ricorda – e il giorno in cui fu scattata la foto tenne un vigoroso discorso invitando soprattutto le donne a non accettare una vita di sottomissione, a alzare la testa”. Un discorso che fu pubblicato con grande evidenza sul giornale socialista “La squilla lucana”. Eravamo nel 1914.
Nella sua grande casa di largo Barbelli, nel cuore della città, si respirava da sempre un’aria di impegno civile. Il giovane Giunio fu per esempio tra gli organizzatori della manifestazione studentesca con cui i giovani potentini protestarono per il delitto Matteotti. E da studente dell’ultima classe di liceo ebbe il tempo di lavorare per il giornale nittiano “La Basilicata” diretto da Giuseppe Chiummiento.


“Il giornale – ricorda Martino – veniva stampato a Napoli, nella tipografia del Mattino, nelle ore nelle quali l’impianto non era impegnato per il quotidiano napoletano. Dopo aver scritto la mia corrispondenza, ogni sera dovevo percorrere a piedi i tre chilometri che separavano casa mia dalla stazione inferiore, con una busta da consegnare al capotreno dell’accelerato della notte per Napoli. La busta veniva presa in consegna all’alba da un fattorino del giornale che la portava in tipografia. Il giornale stampato arrivava poi a Potenza non prima delle due del pomeriggio”.
Una breve stagione, quella del giornalismo, che comunque gli regala il ricordo della visita a Potenza di Vittorio Emanuele III, che il 30 agosto del 1925 arrivò in città accompagnato dal Principe di Piemonte per inaugurare il monumento ai caduti e assistere all’inizio dei lavori dell’acquedotto del Basento.
“Come giornalista avevo l’accesso fin sotto la tribuna dove il Re tenne il suo discorso. Quando questi ebbe terminato, scendendo inciampò nei gradini e stava per piombare a terra con un tonfo clamoroso. Si salvò aggrappandosi alla mia spalla. Faceva caldo, io indossavo solo una maglietta. La presa di Vittorio Emanuele fu così forte che le unghie quasi si conficcarono nella mia scapola”.
Ma torniamo al viaggio per Milano. Un viaggio lungo, ricorda Martino. La partenza nel pomeriggio da Potenza, l’arrivo a Milano il mattino successivo.
La città lo sorprende innanzitutto per il clima. “Scrissi a mio padre che qui mancano la primavera e l’autunno. Si passa con violenza dalla bella alla brutta stagione. Non ho mai più sentito i profumi della nostra primavera né visto i bellissimi colori dell’autunno”.
E anche il clima all’Università non era dei migliori. Il nostro ragazzo prodigio ci mise poco a diventare il primo del corso di Giurisprudenza e ad attirarsi l’ostilità dei compagni. Era intollerabile che un “terruncello” potesse imporsi su tutti. Eppure proprio la sua origine meridionale gli consentì di mettersi ulteriormente in luce. Il professore di criminologia gli assegnò una ricerca sul rapporto tra fenomeno migratorio e malavita. Ne venne fuori uno studio puntiglioso, presentato con una conferenza all’Università, che finì sui giornali. L’Avanti, conoscendo le origini familiari del giovane studioso, ebbe la “cattiva idea” di scrivere che “il compagno Giunio Martino”, studente universitario, aveva tenuto una conferenza sul fenomeno malavitoso.
Il “compagno” sosteneva in questa conferenza che la cattiva reputazione dei meridionali fosse dovuta soprattutto ai siciliani. “Non ero il solo a pensarlo”, ricorda. “Lo diceva già, più di duemila anni fa, Plinio il vecchio: Lucani hospitales iustitiamque colentes; calabri mali et siculi autem peximi”.
Alla fine del terzo anno di corso aveva già sostenuto tutti gli esami. E dovette aspettare un anno, e affrontare due esami in più, perché non era consentito laurearsi prima del tempo.
Ma il giovane talento non dovette attendere la laurea per mettere insieme i primi guadagni. Appena iscritto all’Università cominciò a collaborare con uno studio legale milanese come “patrocinatore legale”. Tra una lezione e un esame, trovava il tempo di seguire le cause a Legnano, Monza, Abbiategrasso. Lo stipendio era di 370 lire al mese, sufficienti per vivere e rispedire al mittente le 500 lire che il padre mandava da Potenza. I primi tempi questi soldi da Potenza tornavano indietro, e poi venivano ancora una volta restituiti. Finché questo tira e molla finì. Papà Antonio si era convinto dell’autosufficienza economica del figlio? Niente affatto. I soldi ricomparvero tutti insieme, e con un bel po’ di interessi, il giorno dopo la laurea. Le cinquecento lire al mese erano state depositate diligentemente su un libretto bancario, avevano fruttato un po’, e per la laurea c’era stato un cospicuo versamento finale. Insomma, il neo dottore si vide arrivare un vaglia di 76 mila lire, una fortuna per quei tempi, sufficiente per assumere un procuratore legale e aprire uno studio in via Durini.
In pochi anni il giovane avvocato si affermò a tal punto da “richiamare” a Milano il padre, la madre e le due sorelle rimaste a casa. “Guadagnavo a sufficienza – ricorda – per mantenerli tutti”.
E intanto gli arrivi dei lucani a Milano si intensificavano, e in breve il flusso divenne inarrestabile. Per molti il nostro avvocato era un punto di riferimento. Ricorda in particolare il rapporto speciale che lo legava al capo del personale dell’Atm, l’azienda tranviaria, e che gli consentì di trovare occupazione per tanti che venivano su da Potenza e dai paesi vicini, e che cominciavano con piccoli lavori di manovalanza per diventare poi tranvieri e fattorini. Molti dei loro figli, racconta orgoglioso, oggi sono affermati professionisti nella Milano che conta.
E intanto conobbe la moglie, una donna importante per la sua vita e ancora più importante per il cognome che gli portò in dote. Si chiamava Ippolita Volta. Era la nipote del nipote del grande Alessandro. Aveva solo una sorella, per cui con loro la linea di discendenza sarebbe andata perduta. Ma i figli di Giunio non potevano permettere che si perdesse il ricordo di questo importante antenato, e hanno ottenuto, dopo un lungo iter burocratico, di poter aggiungere il cognome della madre al loro. La famiglia, d’ora in poi, si chiamerà Martino-Volta.
Chi avrebbe detto che a salvare la memoria dell’insigne scienziato sarebbe stata una famiglia di Potenza!
E il racconto di Giunio Martino, decano dei lucani di Milano, continua, ricco di particolari, date, episodi rivisti come in un film, intasando il mio taccuino di cronista con una precisione davvero fuori dal comune.
Nel salutarmi torna su una domanda che gli avevo fatto e alla quale non aveva risposto, fingendo di non averla sentita.
“Sa, ho pensato a cosa vuol dire per me, dopo settantacinque anni, sentirmi ancora lucano. Significa essere semplicemente una persona corretta. Lei mi ha voluto incontrare immaginando chissà che personaggio si sarebbe trovato di fronte. Io non ho fatto niente di speciale. Da studente ho studiato, da avvocato ho cercato di fare del mio meglio, da marito, da padre e da nonno ho cercato di adempiere i miei doveri. Niente di speciale. Ora vorrei riposarmi un po’. E se avrò un po’ di tempo, questa estate voglio tornare a Potenza”.
Non ne ha avuto molto, di tempo. Qualche mese dopo il nostro incontro ha accusato un malore. I figli l’hanno accompagnato in ospedale. Dopo poche ore stava, o mostrava di stare, già bene. Ha congedato i figli, che andassero tranquillamente a dormire. Li avrebbe rivisti il giorno dopo, di sicuro per essere riaccompagnato a casa.
La notte, alle tre, squilla il telefono a casa del figlio maggiore, Antonio, avvocato come il padre e il nonno. Giunio Martino, il nipote di Alessandro Volta, se n’è andato, discretamente. Non avrebbe sopportato la folla di figli e nipoti al suo capezzale. In fondo anche la sua morte doveva essere un evento come tanti. Niente di speciale.

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