Ricordato a New York Vito Marcantonio, un leader di sinistra nell’America della guerra fredda

Si sono dati appuntamento nel pomeriggio di domenica 28 agosto a New York sulla Broadway nella zona sud di Manhattan, davanti al parco della City Hall, proprio nel punto in cui, colpito da un improvviso malore, morì in un piovoso pomeriggio dell’agosto del 1954, Vito Marcantonio, l’indimenticato leader politico radicale di origini lucane. Con una cerimonia laica che si ripete ormai da qualche anno nei luoghi significativi della sua vita, si sono alternati al microfono docenti universitari, giornalisti, uomini di spettacolo, esponenti politici, attivisti di movimenti sociali che hanno dato vita da qualche anno al “Vito Marcantonio forum”, una associazione culturale che ha lo scopo di mantenere viva la memoria di questo esponente dell’area progressista della politica americana, la cui figura è ancora particolarmente viva nel ricordo dei tanti emigranti che affollarono le “Little Italy” di New York nel secolo scorso.
Marcantonio era nato nel cuore di East Harlem, in una casa di emigranti sulla 112esima strada, nel dicembre del 1902. Il nonno Vito, figlio di uno dei patrioti che si unirono ai garibaldini nel 1860, era partito da Picerno per gli Stati Uniti, insieme alla moglie Rosa, nel 1881. L’anno dopo era nato Saverio, il primo Marcantonio cittadino americano. Americano ma non fino al punto da dimenticare le antiche tradizioni della terra di origine. Il giovane Saverio a 19 anni tornò a Picerno insieme al padre per il più classico dei matrimoni combinati: giusto il tempo per conoscere la sua promessa sposa e impalmare la compaesana Angelina De Dovitiis. Poi di corsa a New York per la defini-tiva traversata dell’Oceano

Vito fu un bambino fortunato. Il suo piccolo mondo era al cento per cento italiano, così come italiani erano i suoi primi compagni di gioco. Ma papà Saverio parlava inglese, aveva un buon lavoro, guadagnava il giusto, e in casa non si viveva quella condizione di straniamento che caratterizzava tante famiglie contadine che arrivavano dal sud d’Italia.
Che avesse una marcia in più fu subito chiaro ai maestri della scuola elementare. Al termine degli studi, il preside lo descrisse con espressioni entusiastiche: “si distingue per la tenacia delle proposte, l’iniziativa, il coraggio, le innate doti di leadership”.
E Vito non si perse d’animo neppure quando papà Saverio fu travolto da un tram e restò senza vita sul selciato della terza Avenue. Sostenuto da mamma Angelina e nonna Rosa, proseguì negli studi e fu uno dei soli due ragazzi del quartiere a iscriversi a una scuola superiore, la DeWitt Clinton High School. Per raggiungerla doveva fare quattro miglia a piedi ogni mattina, ma non si scoraggiò. E fu in quella scuola che incontrò le persone più importanti per la sua vita: Leonard Covello e Fiorello LaGuardia.
Covello (Leonardo “Narduccio” Coviello all’anagrafe) era arrivato da Avigliano nel 1896. Dopo il dottorato alla Columbia aveva inaugurato un corso d’italiano alla DeWitt Clinton ritrovandosi Marcantonio tra gli allievi. L’intesa fu immediata, al punto che il giovane Vito, rimasto orfano, avrebbe finito con il chiamare “pops”, papà, il suo primo professore di italiano, che non aveva figli. Un’intesa durata tutta la vita, scandita da im-portanti iniziative come la promozione dello studio dell’italiano a New York, la crea-zione di “circoli italiani” nel mondo studentesco, la fondazione della Casa del Popolo e la nascita della prima scuola superiore di East Harlem, la Beniamin Franklyn High School, esempio ineguagliato di multiculturalismo dove sarebbero state accolte con eguale dignità generazioni di italiani, ebrei, neri, portoricani.
E fu sempre Covello a invitare alla DeWitt Clinton per un incontro con gli studenti Fiorello LaGuardia. In quell’occasione Vito tenne una relazione sulle responsabilità dello Stato per le pensioni e la sicurezza sociale. LaGuardia ne rimase colpito, e non avrebbe perso più di vista questo ragazzo che mostrava grandi doti di leader e una spiccata sensibilità sociale. Lo avrebbe seguito nei suoi studi giuridici, trovandogli poi un primo posto di lavoro come specialista in casi d’immigrazione. Ma soprattutto ne avrebbe fatto il capo indiscusso della potente macchina elettorale che lo portò prima al Congresso in rappresentanza del collegio di East Harlem, e poi alla City Hall.
Eletto sindaco LaGuardia, fu naturale per Marc, come cominciarono a chiamarlo i suoi sostenitori, prendere il suo posto. E a 32 anni conquistò il collegio per il primo dei sette mandati che lo avrebbero portato al Congresso per ben 14 anni, grazie a una poten-te macchina elettorale e a una base sociale formata dalle comunità italoamericana, por-toricana e afroamericana, dalla gente comune di East Harlem, con la quale aveva tra-scorso tutta la vita e che lo riconosceva come leader indiscusso. Con la sola eccezione del biennio ’36-38, Marc fu sempre rieletto fino al 1950, talvolta vincendo le primarie di tutti i partiti, dai repubblicani ai democratici, altre correndo da solo, alla testa dell’American Labour Party di cui era stato tra i fondatori. La sua forza era il rapporto personale con la “sua” gente, come testimoniano ancora oggi le migliaia di lettere degli elettori conservate nella Public Library di New York.
Sostenitore dei diritti civili, difensore dei lavoratori e degli immigrati, promotore dell’indipendenza di Portorico, faceva della sua attività politica una missione di servizio. I suoi uffici elettorali, aperti dalle dieci del mattino alle otto di sera 365 giorni l’anno, erano un punto di riferimento per tutte le necessità.
L’attaccamento del “suo” popolo spiega il fatto straordinario che, pur essendo di idee radicali, Marc abbia vinto ben sette elezioni, sbaragliando una straordinaria opposizione.
Non aveva molti amici negli ambienti che contano, dalle elites finanziarie di Wall Street ai grandi giornali come il New York Times che gli dedicò infuocati editoriali spe-cie dopo il suo voto contrario (l’unico del Congresso) alla guerra in Corea. L’FBI rac-colse oltre 6000 files con segnalazioni sulla sua presunta attività filocomunista.
E per sconfiggerlo fu necessario cambiare la legge sulle candidature e allargare i con-fini del suo collegio elettorale. Alla fine, nel 1950 i suoi oppositori la ebbero vinta met-tendo in piedi una grande coalizione, dai repubblicani ai democratici ai liberali, e final-mente l’FBI potè mettere una “X” sulla sua scheda alla ipotesi di arresto preventivo in caso di pericolo per la sicurezza nazionale.
Ma Marc non era uno che si dava per vinto. E la mattina del 4 agosto 1954, quando fu colpito da un attacco di cuore e cadde sul selciato della Broadway nella zona della City Hall, stava andando nel suo ufficio a preparare i documenti per l’ennesima candi-datura.
I medici che ne constatarono la morte gli trovarono al collo un Crocifisso e in tasca la coroncina del Rosario. Ma questo non fu sufficiente alla Diocesi di New York per autorizzare il funerale nella Chiesa della Madonna del Carmine, il tempio costruito sulla 115ma strada dai primi immigrati italiani e dove Marc era stato battezzato. Il cardinale Francis Spellman, campione dell’anticomunismo in tempi di guerra fredda, fu irremovibile e negò il funerale religioso. «Marcantonio – spiegò il suo portavoce – non ha prati-cato la sua religione per molti anni e non si è riconciliato con la Chiesa prima di morire». E così il popolo di Marc dovette accontentarsi di riservare al suo eroe un enorme tributo laico, con decine di migliaia di persone che affollarono per tre giorni le strade dell’Italian Harlem.

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