Birds of passage. Per ricordarci chi eravamo e chi siamo in un mondo globalizzato

Nella catena montuosa di Saint Elias Mountains, la seconda al mondo dopo la Cordigliera delle Ande, ai confini tra il Canada e l’Alaska, a 5.226 metri di altezza, tra violente bufere di neve e raffiche di vento gelido, svetta la cima di Mount Lucania. Il primo uomo a individuarlo, e imporgli questo nome, fu Luigi Amedeo di Savoia, il duca degli Abruzzi. Era arrivato in Canada, alla testa di una spedizione di ardimentosi alpinisti, attraversando l’oceano a bordo di una motonave di Sua Maestà Britannica che si chiamava Lucania.
Qualche migliaio di chilometri a sud, nel cuore di Manhattan, al numero 235 West della settantunesima strada, c’è palazzo Lucania, un elegante edificio di otto piani destinato ad appartamenti per la middle-class costruito nel 1910 da Anthony Campagna, un avvocato di Castelmezzano che è diventato uno dei più importanti imprenditori edili di New York City.
A Genk, una delle capitali del distretto minerario del Limburgo, in Belgio, ancora oggi i prodotti tipici della Basilicata, compresi pane e latticini, arrivano freschi ogni settimana.
A Berlino una commissione della Regione Basilicata arrivata all’inizio degli anni duemila per censire i ristoranti che proponevano cucina tipica lucana, ne arrivò a contare il numero incredibile di ventitré.
A Buenos Aires, certamente la maggiore città “lucana” nel mondo, sono invece ben ventisei le associazioni che si richiamano alla Basilicata: tante da aver sentito l’esigenza di riunirsi in una federazione.

A Iquique, una modesta cittadina nel nord del Cile, ai piedi del polveroso deserto dell’Atacama, dove piove ogni trecento anni, la piazza principale si chiama Plaza Oppido Lucano.
A Toronto, al numero 622 di College Street, nell’affollato atrio del palazzo della Chin, la più grande emittente multiculturale del nord America, ad accogliere le centinaia di dipendenti c’è una gigantografia con la faccia sorridente del suo fondatore, Johnny Lombardi, al secolo Giovanni Barbalinardo da Pisticci.
E a Cape Canaveral, Florida, sono ancora tanti i tecnici della Nasa che ricordano con simpatia e rispetto la bella faccia da contadino lucano di Rocco Petrone, l’uomo che dette il via alla partenza dell’Apollo 11 per la luna, figlio di emigranti di Sasso di Castalda.
Potremmo continuare a lungo con le testimonianze, i ricordi, la storia e le storie della grande avventura di un popolo che la miseria, il bisogno, le circostanze, la voglia di progredire, talvolta anche l’amore e il desiderio di avventura, hanno portato in ogni angolo del mondo. Storie di donne e di uomini che, lasciando la propria terra, hanno scommesso sul proprio futuro in condizioni difficili. Storie di clamorosi successi e di tristi ritorni a casa. Ma soprattutto storie quotidiane di gente normale, che ha vissuto con grande dignità quel vero e proprio esodo biblico che ha portato ormai alla nascita nel mondo di un’altra Basilicata.
Gente speciale, che continua a sentirsi pienamente lucana anche con il passare degli anni e delle generazioni, e che nel mondo globalizzato testimonia con la sua presenza negli angoli più lontani del pianeta l’importanza delle radici e dell’identità.
“Girano tanti lucani per il mondo – scriveva Leonardo Sinisgalli – ma nessuno li vede. Non sono esibizionisti. Il lucano, più di ogni altro popolo, vive bene all’ombra, dove arriva fa il nido. È di poche parole. Quando lavora non parla, non canta. Abituato a contentarsi del meno possibile, si meraviglierà sempre dell’allegria dei vicini, dell’esuberanza dei compagni, dell’eccitazione del prossimo. Lucano si nasce e si resta”.
Costretto dalle circostanze o mosso dal desiderio di avventura, questo popolo con la valigia ha dato il meglio di sé proprio nelle condizioni più difficili, quando si è trovato in mare aperto con la necessità di imparare rapidamente a nuotare. E questa natura di gente di montagna, chiusa, silenziosa ma rocciosa e abituata alla “fatica”, poco incline alle lamentazioni o alle nostalgie, è stata la sua grande risorsa.
Nei territori più conosciuti, dalle Americhe al centro Europa ai distretti industriali del nord Italia, così come nei luoghi più sperduti e irraggiungibili, dovunque questo popolo migratore ha portato la sua particolarissima condizione umana. Raramente troverete un lucano che urla, che si impiccia in affari di altri, che ama mettersi in mostra; difficilmente troverete il nome di un lucano nelle cronache criminali; e sicuramente non vi capiterà mai di trovare un lucano che affida al canto la sua nostalgia per la patria lontana. E’ più facile che le sue gote siano bagnate di sudore piuttosto che di lacrime. Ed è certo che il suo orgoglio per essere diventato cittadino del mondo sarà almeno pari al suo legame con le radici.
Abituati a non perdersi per le strade del mondo fin da molto prima del periodo della grande emigrazione, quando i musicanti girovaghi di Viggiano attraversavano l’Europa e cominciavano a imbarcarsi per le terre d’oltre oceano, dovunque hanno finito con mettere le radici, silenziosi ma intraprendenti.
Hanno cominciato adattandosi ai mestieri più umili e faticosi: muratori, minatori, spazzini, strilloni, venditori ambulanti, lavandaie, sartine. Molti hanno fatto fortuna, non nelle sale da gioco, ma nella polvere dei cantieri o nel rumore delle fabbriche. Quasi mai si sono tirati indietro, come quel gruppo di contadini che arrivò chissà come nel nord del Cile, e riuscì, mettendo fondo all’antica abilità contadina, a realizzare nel deserto le condizioni per un’agricoltura di avanguardia; o come quegli artigiani finiti in Amazzonia, dove misero su una rete di piccoli commerci sulla quale si sarebbe costruita la fortuna di intere famiglie; o come quel missionario che, arrivato diciottenne in Mozambico, capì che oltre a predicare il Vangelo doveva aiutare quel popolo a mangiare, e creò in pochi anni una rete di cooperative in grado di dare lavoro a migliaia di donne.
I primi emigranti arrivavano in terre sconosciute, spesso dopo aver lasciato per la prima volta il paese. Ignoravano la lingua, si sentivano isolati rispetto agli altri gruppi etnici e anche alle comunità italiane molto più numerose per provenienza regionale, ma capirono presto che quella era la loro nuova casa, e che il successo di quella avventura sarebbe stato anche il successo della loro nuova patria. Da lì bisognava ripartire non solo per migliorare le condizioni economiche, ma anche per ricostruire quell’universo di affetti, amicizie, tradizioni, consuetudini che avevano lasciato.
E così, decennio dopo decennio, generazione dopo generazione, i paesi lucani aggrappati alle rocce dell’Appennino che si spopolavano in Italia crescevano in qualche altra parte del mondo. Si può dire addirittura che è proprio in questi nuovi insediamenti che la cultura, le tradizioni, le abitudini, i valori fondanti di questa terra antichissima si siano conservati con incredibile rigore.
Birds of passage, uccelli di passo: così li chiamavano con disprezzo i funzionari di Ellis Island. Oggi questi uccelli di passo hanno riempito il mondo di nidi. Alcuni grandi e confortevoli, altri un po’ più piccoli, ma tutti dignitosi e rispettabili. E sono questi “nidi” che, nell’era della globalizzazione, ci restituiscono i contorni tutti ancora da scoprire di una regione ormai senza confini ma non senza identità.

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