Quando a venire dai “paesi di cesso” eravamo noi

Shithole Countries: così il presidente degli Stati Uniti ha definito i paesi di origine dei migranti che non gli piacciono. Preferirebbe i norvegesi agli africani. Il mondo civile ha reagito a questa intollerabile deriva razzista del massimo rappresentante di un paese fatto di migranti. Ma è il caso di ricordare che non è la prima volta nella storia degli USA che si tenta di discriminare i migranti sulla base dei paesi di origine. Più o meno cento anni fa toccò proprio agli italiani, e in particolare a quelli del sud.
Negli anni ’20 del novecento il governo americano, e l’opinione pubblica “benpensante” del paese, erano sempre più preoccupati da quella che consideravano una vera e propria invasione. Gli italiani, e in particolare quelli del sud, non venivano visti di buon occhio: avevano difficoltà a imparare la lingua, vivevano in comunità che apparivano chiuse e autosufficienti (le cosiddette Little Italies), tendevano a familiarizzare con i neri, erano coinvolti in organizzazioni malavitose e, a pensarci bene, non si poteva neppure affermare con assoluta certezza che fossero di razza bianca (certi siciliani, bassi e mori, non lo erano di sicuro).
Nel nacque una vera e propria campagna xenofoba, nella quale le stesse autorità governative non si fecero scrupolo di utilizzare le teorie di Lombroso per argomentare che gli italiani, specie quelli del sud, bassi di statura, scuri di pelle, dai folti capelli e dalle grandi orecchie, erano molto più inclini a commettere crimini violenti rispetto a tedeschi, norvegesi, austriaci, svedesi, inglesi e immigrati da altri paesi del nord Europa.
Dunque, concludeva nel 1911 l’infame rapporto sull’immigrazione stilato dalla commissione presieduta dal senatore del Vermont William Dillingham, “certi fenomeni criminali, come violenza, furti, ricatti e estorsioni sono inerenti alla razza italiana”.
Come porre rimedio a questa “invasione”? Alzando muri.

E i muri presero l’aspetto del “Quota act” del 1921 e del successivo “Immigration act” del 1924.
Per capire fino in fondo l’efficacia di questi “muri” basta ricordare qualche cifra.
Dal giugno del 1920 al giugno del 1921 arrivarono in America, al netto dei clandestini, 800mila italiani. Il “Quota act” stabilì che potesse essere ammesso al massimo il 3 per cento del totale delle presenze in quel momento per ciascuna nazionalità. L’entrata in vigore della nuova norma portò un drastico ridimensionamento degli arrivi, che superarono di poco le 40 mila unità.
Ma non era ancora sufficiente. Non che non servissero braccia nell’America del dopoguerra, che viveva un momento di grande espansione. Ma la preoccupazione era che questa immigrazione dal sud Italia e da altri paesi “a rischio” potesse inquinare l’assetto sociale e culturale degli States. Una preoccupazione che finì paradossalmente per incontrare il consenso del regime fascista che, con la sua retorica dell’espansione demografica, avrebbe accettato di buon grado la costruzione di questi muri.
Ed ecco la soluzione. L’”Immigration Act” del 1924 ridusse al 2 per cento gli ingressi annui per ciascuna nazionalità. Ma attenzione: non il 2 per cento degli arrivi nell’anno precedente, ma delle presenze fino al 1890.
E perché proprio il 1890? Perché fino a quell’anno l’immigrazione negli USA, salvo poche eccezioni, era stata solo di origine anglosassone. Gli italiani cominciarono ad arrivare in massa proprio a partire dall’ultimo decennio del secolo.
Insomma restava il 2 per cento di nulla, o quasi.

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