Epopea Apollo 10. L’italiano che salvò razzo e missione

Il 20 maggio di cinquant’anni fa la navicella spaziale Charlie Brown, con tre astronauti americani a bordo, era in fase di avvicinamento all’orbita lunare a quasi quattrocentomila chilometri dalla Terra. Aveva il compito di sganciare verso il nostro satellite il modulo Snoopy che scese a poco più di quindici chilometri di distanza dal suolo per la prova generale di quello che sarebbe stato due mesi dopo lo spettacolare sbarco del primo uomo sulla Luna.
Era la missione Apollo 10, partita dalla rampa 39B di Cape Kennedy due giorni prima con un lancio perfetto avvenuto al termine di cinque mesi di preparazione nel corso dei quali non erano mancati i problemi. L’ultimo, appena una settimana prima, rischiò di compromettere la missione, per la sbadataggine di un tecnico addetto alla propulsione che aveva inavvertitamente abbassato la pressione dell’azoto dopo che era stato riempito di cherosene il primo stadio del Saturno V, il grande razzo che aveva il compito di portare nello spazio la navicella con gli astronauti e il modulo lunare. La sconsiderata manovra aveva provocato la perdita di quasi cinquemila litri di carburante e l’apertura di una pericolosa falla nella paratia del razzo. Quel banale errore poteva comportare la perdita del missile con un costo di un centinaio di milioni di dollari, oltre al rinvio a chissà quando dell’appuntamento con la Luna. Ma per fortuna a capo di tutte le operazioni a Cape Kennedy c’era un uomo dalle grandi capacità, il carattere forte e i nervi d’acciaio. Era Rocco Petrone, e il nome stessa racconta delle sue origini in quell’Italia contadina del sud che ha alimentato la grande emigrazione verso gli Stati Uniti d’America. Petrone non si perse d’animo. Anche se era una domenica richiamò al lavoro centinaia di tecnici e impose che arrivassero sul posto da Huntsville, Alabama, i progettisti del razzo. In due giorni di lavoro non-stop, sotto la sua inflessibile supervisione, il razzo fu riparato e messo in condizione di partire puntuale per la sua missione. Una operazione rischiosa, avvenuta sotto gli occhi preoccupati del governo federale, ma l’unica che poteva consentire di proseguire nel programma Apollo senza bruciare milioni di dollari e accumulare ritardi imprecisabili.

È dunque soprattutto merito suo se qualche giorno dopo gli astronauti Stafford e Ceman riuscirono ad arrivare a pochi chilometri dal suolo lunare a bordo del Lem, portando a termine con successo la prova generale della grande spedizione.
Rocco Petrone era figlio di due contadini lucani che erano partiti da Sasso di Castalda, in provincia di Potenza, nel febbraio del 1921, giusto qualche mese prima che l’America con il Quota Act riducesse drasticamente gli arrivi di quelli che i funzionari di Ellis Island chiamavano sprezzanti i south italians, gli italiani del sud. Nato ad Amsterdam, New York, nel 1926, rimase orfano a soli sei mesi. Papà Antonio, che aveva trovato lavoro nelle ferrovie, fu travolto da un treno in un drammatico incidente a pochi passi da casa. Il piccolo era atteso da una vita di sacrifici, ai quali non si sottrasse. Imponente nel fisico e vivace nell’intelligenza, si pagò gli studi lavorando. Per portare qualche dollaro a casa distribuiva ghiaccio alle famiglie del quartiere. E soprattutto si fece notare per le sue grandi capacità, e grazie queste al termine della scuola superiore fu ammesso all’Accademia di West Point, dove fece parte della squadra vincitrice del campionato nazionale di football. Diventato ufficiale dell’esercito americano, completò gli studi al Massachusetts Institute of Technology, dove conseguì il master degree in ingegneria meccanica. Divenne uno dei maggiori esperti di missili e rampe di lancio, al punto che Wernher von Braun, lo scienziato tedesco che aveva lavorato per i nazisti e che alla fine della guerra era passato con gli americani insieme al suo straordinario gruppo di lavoro, lo volle con sé alla Nasa appena si cominciò a parlare del programma per la conquista della Luna. Petrone lavorò alla costruzione del Saturno V, il più grande razzo mai progettato, e della mitica rampa di lancio 39 da cui partirono gli astronauti verso la Luna. Nei giorni che stiamo ricordando, lasciato l’esercito, era diventato il direttore delle operazioni di lancio a Cape Kennedy, cioè il responsabile di tutto il procedimento, dall’allestimento del veicolo spaziale, composto da oltre sei milioni di pezzi, fino al lancio. Un fisico imponente da giocatore di football, un metro e novanta di altezza per quasi un quintale di peso, due occhi sottili e severi su una faccia squadrata con gli zigomi sporgenti, le labbra taglienti e il naso leggermente aguzzo, era conosciuto come uomo severo e riservato, disponibile ma rigoroso e inflessibile. Guidava un esercito di quasi ventimila persone, tra dipendenti diretti della Nasa e funzionari dei contractors, le ditte appaltatrici. Per tutti era “la tigre”, un capo che chiedeva sempre la massima efficienza e la risposta efficace per ogni problema. Proibito sbagliare, o, peggio, divagare. Mitiche le sue sfuriate e altrettanto mitiche la sua eccezionale memoria fotografica e la sua capacità di lavoro. Nei periodi più intensi, raccontavano i suoi collaboratori, convocava riunioni anche alle due. E intendeva le due del mattino.
Ma torniamo a quel 20 maggio del 1969. Mentre Apollo 10 procedeva con la sua missione, altre cose straordinarie accadevano a Cape Kennedy. Mezz’ora dopo mezzogiorno il veicolo destinato alla missione più importante lasciava il VAB, il Vertical Assembly Building, dove era stato costruito pezzo per pezzo in più di tre mesi di lavori, diretti sempre da lui, Rocco-la tigre. Apollo 11, con il razzo Saturno V e in cima il modulo di comando e il modulo lunare, cominciò il suo viaggio di quattro chilometri a bordo di un gigantesco cingolato verso la rampa di lancio 39A dalla quale avrebbe spiccato il volo il 16 luglio per portare i primi uomini sulla Luna. E a dare l’ok per questo appuntamento con la storia, dopo due mesi di minuziosi controlli e un conto alla rovescia di oltre novanta ore, dal centro della fila di comando della sala controllo con quasi cinquecento tecnici al lavoro, ci sarebbe stato ancora lui, Rocco Petrone, l’americano di prima generazione figlio di contadini poveri partiti meno di cinquant’anni prima da Sasso di Castalda.

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