Un Angelo tra le donne di Maputo

Una donna che porta una zappa sulle spalle e un bambino in grembo, e la scritta: “Producendo ci formiamo e ci liberiamo”. È il simbolo dell’Unione Generale delle Cooperative, l’organizzazione che a Maputo, capitale del Mozambico, mette insieme centinaia di imprese, dando lavoro a migliaia di persone, in grandissima parte donne. Un piccolo miracolo economico in una delle regioni più povere dell’Africa, che ha suscitato l’interesse degli studiosi di economia dello sviluppo, e che porta la firma di un piccolo frate francescano arrivato dalla Basilicata.
Rocco Gallipoli nasce a Montescaglioso nel 1932. A sedici anni decide di dedicarsi alla vita religiosa. È ordinato sacerdote nel ’57. Diventa frate cappuccino e sceglie il nome di padre Prosperino.
Ha poco tempo per guardarsi intorno. Passa poco più di un anno e i superiori gli chiedono di andare nella parte più povera del Mozambico, la regione dello Zambesia, come coadiutore delle missioni. Gli descrivono un paese allo stremo, ancora sotto la dominazione coloniale portoghese, sfibrato dalle guerre, segnato dalla miseria, dall’analfabetismo di massa, dalle malattie.

“Allora sono pronto!”, dice Prosperino, e da quel momento la sua storia personale si intreccia con quella di un popolo che definirà “affettuoso, meraviglioso, affabile, disponibile”.
Non ha un carattere accomodante, padre Prosperino. Arrivato nella terra di missione capisce subito che il suo compito non può essere solo quello di predicare il Vangelo e di mettere in piedi qualche opera di carità. “Il primo problema che mi trovai davanti fu la fame, la povertà assoluta. Vedevo con i miei occhi lo sfruttamento delle persone. Persone che da sole non riuscivano a risollevarsi, non avevano forza, gli mancava anche il coraggio. Erano poveri in tutto. Non potevo accettare di predicare per salvare l’anima e lasciare che il corpo morisse di fame e di malattia”.
Sono gli anni dell’agonia del colonialismo, della guerriglia, dello scontro tra fazioni che sfocerà nella guerra civile. Prosperino comincia a lavorare in condizioni difficili, apre le prime scuole, intuisce che il movimento cooperativo può essere una risposta alle condizioni disperate di questo popolo, scopre che deve puntare soprattutto sulle donne. Gli uomini sono sospettosi e poco propensi a lavorare. Non si fidano di questo bianco che preferisce svolgere la sua opera di missionario più nei campi che in chiesa. “Le donne invece, soprattutto quelle che lavoravano nei campi, avevano bisogno di qualcuno che desse loro coraggio. E io, che nella vita ero stato sempre un timido, mi accorsi di avere coraggio”.
Un coraggio che lo mette subito in contrasto con i potenti di turno. Partiti i portoghesi, i nuovi padroni della regione non amano questo missionario che pure non aveva esitato a aiutarli quando guidavano i movimenti di liberazione. Qualcuno teme che possa aprire troppo le coscienze della gente, preparandole a lottare per quella libertà dal bisogno che l’indipendenza non aveva assicurato. Nel ’79 il frate scomodo viene espulso dallo Zambesia. Ma l’Africa è ormai la sua patria, non ci sta ad abbandonare il popolo al quale ha legato la sua vita, e pur di rientrare non esita a rivolgersi al presidente della Repubblica, Samara Machel, leader del Frelimo, il fronte di liberazione che ha preso il potere dopo la fine del colonialismo. Per suo ordine dopo pochi mesi Prosperino è di nuovo in Mozambico, con tante scuse, stavolta a Maputo..
Qui ricomincia a tessere la sua tela per la promozione umana e civile. La capitale gli ripropone in maniera esasperata la condizione di drammatica miseria in cui vive una popolazione che si concentra sempre di più intorno alla città, mentre infuria la guerra civile, con migliaia di sfollati che arrivano a ingrossare il numero dei poveri. Si mette al lavoro e ancora una volta punta sulle donne. Con loro mette su le prime cooperative per l’allevamento di polli, cui se ne affiancheranno altre per le coltivazioni orticole e l’artigianato. Alla fine degli anni ’80 il movimento comincia darsi una struttura organizzativa. Nasce l’Unione Generale delle Cooperative, che sarà riconosciuta dal governo nel 1997.
Le donne di Prosperino cominciano a prendere coraggio, molte di loro sono pronte a trasformarsi in organizzatrici, piccole imprenditrici di se stesse, mostrano capacità critiche che lui non si stanca di valorizzare e sollecitare. Le attività produttive, che pure si stanno sviluppando soprattutto nell’allevamento, nella macellazione e nella distribuzione di pollame, non sono sufficienti. Bisogna pensare alle case, alle scuole, agli ambulatori, in una zona dove domina l’analfabetismo e dove l’Aids si sta diffondendo in modo preoccupante.
E come se non bastassero decenni di guerra e di devastazioni, arriva nel 2000 la grande alluvione che sembra voler portare via anche il sogno di questo frate cappuccino. Le acque distruggono i campi e inondano gli allevamenti, oltre a lasciare senza tetto migliaia di persone.
Ma padre Prosperino e le sue donne ormai hanno imparato ad avere coraggio, e si rimettono al lavoro, chiamando a raccolta anche gli amici che vivono nella parte ricca del pianeta e che in questi anni hanno imparato a conoscere e a apprezzare le opere dell’Unione delle Cooperative. Si mobilitano in tanti, da Walter Veltroni, allora sindaco di Roma, per il quale la casa di padre Prosperino diventa una tappa obbligata nei suoi viaggi in Africa, agli amici della “sua” Basilicata, alle organizzazioni internazionali, cattoliche e non. Arriva un prestito finanche dalla Banca Mondiale, un organismo notoriamente non avvezzo a opere di carità.
“La speranza è più forte della paura”, ripete Prosperino. E il lavoro riprende, con più forza e consapevolezza di prima. In pochi mesi sono pronti duemila alloggi per gli alluvionati. All’inizio semplici, povere baracche, sufficienti però per arrestare un nuovo tragico esodo. Si ricostruiscono strade e ponti, si scavano pozzi per l’irrigazione della vasta area rurale. E intanto si sviluppa la produzione avicola, che in breve tempo diventa la più importante di Maputo. Le cooperative gestiscono tutta la filiera, dal mangime al pollo vivo o congelato, arrivano a produrre fino a trentamila galline al mese, e ogni giorno ne vendono oltre tremila vive, piazzate in città dal solito e organizzatissimo esercito di donne. E intanto nascono nuove cooperative per le produzioni di ortaggi e fiori, per la coltivazione intensiva e la trasformazione dell’anacardio, la produzione di mangimi, le piccole attività artigianali. Prosperino passa le sue giornate tra una visita al macello e un giro per i campi e le serre. Spesso viene salutato dalla sue donne con i canti di accoglienza della tradizione tribale, ai quali non disdegna di unirsi. Per tutte ha una parola di incoraggiamento, un invito, un consiglio.
Ma lo sviluppo delle attività non è tutto. Bisogna lavorare su quella che Prosperino definisce la “coscientizzazione”. Bisogna spingere verso la piccola imprenditorialità, trasformare la mentalità da passiva ad attiva, introdurre nelle coscienze elementi di dinamicità economica. Da consumatore assistito il cittadino africano deve diventare produttore e risparmiatore, acquisire quella che ama definire la “leaderanza”, cioè la capacità di guida e di orientamento del gruppo. Una dote che storicamente gli fa difetto, ma senza la quale difficilmente potrà salvarsi.
E allora bisogna cambiare il lavoro nei campi, introducendo la piccola proprietà della terra, pur non facendo mancare l’appoggio logistico e gestionale della cooperativa. Bisogna sviluppare il micro-credito, per trasformare i più attivi e capaci in piccoli imprenditori. Bisogna puntare sulla crescita professionale delle donne, per le quali si organizzano corsi di formazione non solo per apprendere elementi di gestione e amministrazione, ma anche per imparare a parlare, a sapersi difendere, a essere leader. E bisogna rispondere alle esigenze della salute, in un paese nel quale solo i pochissimi ricchi possono permettersi una assistenza sanitaria degna di questo nome. E c’è poi il problema della scuola e della istruzione, della lotta all’analfabetismo che caratterizza la stragrande maggioranza della popolazione.
Un lavoro enorme, ma Prosperino non è solo. Si rafforza soprattutto il legame mai spezzato con la sua terra di origine, dove lavora attivissimo Antonio Tricase, sostenitore della sua opera fin da quando, giovane parroco a Montescaglioso, lo vide partire per la missione. Tricase non ha fatto molta carriera da sacerdote. Di carattere forte come il suo amico Prosperino, poco avvezzo ai compromessi, ha finito con lo scontrarsi duramente con la gerarchia, fino al punto da chiedere di venire allontanato dal sacerdozio, sul finire degli anni ’70, insieme ad altri sei preti “contestatori”. Ma la riduzione allo stato laicale non gli ha fatto perdere la fede in Dio, la fiducia negli uomini di buona volontà, e la voglia di fare del bene. E così, mentre Prosperino combatte la sua battaglia in Mozambico, Antonio Tricase moltiplica gli sforzi per aiutarlo concretamente, mobilitando l’attenzione della gente e delle istituzioni locali. Non deve fare un grande sforzo a convincere della bontà dell’impresa Filippo Bubbico, che è nato e vive a Montescaglioso, e che dal 2000 è presidente della regione Basilicata. Laico di formazione, ma non indifferente al messaggio cristiano, Bubbico ha già sostenuto in passato l’opera di Prosperino, ma ora si convince ad osare di più. E così, siamo nel 2002, la Regione Basilicata e la Conferenza Episcopale regionale lanciano la campagna “La Basilicata per il Mozambico”, per sostenere l’opera di Padre Prosperino a Maputo e di un suo confratello, fra’ Antonio Triggiante, missionario a Quelimane, nel nord del paese. Ai cittadini della Basilicata viene chiesto un piccolo gesto di solidarietà per aiutare l’opera delle missioni. Il costo di materiali e attrezzature per la casa, il lavoro e lo studio, in Mozambico è molto basso rispetto alle nostre capacità economiche. E dunque bastano mille euro per realizzare l’alloggio per una famiglia alluvionata, cinquanta per curare un ammalato di malaria, centocinquanta per finanziare il piccolo credito per l’avvio di una attività commerciale, diciotto per un giorno di refezione per quattrocento alunni, ottanta per lo stipendio mensile di un insegnante.
La risposta è incoraggiante. E a fine agosto una delegazione guidata da Bubbico arriva a Maputo per incontrare padre Prosperino, consegnargli i primi frutti della solidarietà popolare della sua Basilicata, rendersi conto da vicino dell’opera di questo frate. L’Unione Generale delle Cooperative è ormai una delle organizzazioni economiche più importanti del Mozambico. A poco più di vent’anni dalla fondazione conta più di 270 cooperative in cui lavorano oltre settemila persone, per il 97 per cento donne. Si calcola che con il reddito prodotto vivano non meno di 35 mila persone. L’Unione è la principale fornitrice di pollame, frutta e verdura nella capitale, una metropoli di oltre due milioni di abitanti. Ha messo in piedi una mezza dozzina di ambulatori e centri specialistici. Dall’ospedale civile della capitale vengono qui per le analisi del sangue più accurate. Dispone di una stazione radiofonica, di una rete di scuole per l’infanzia e di due scuole superiori. La scuola tecnica di contabilità, progettata da un architetto olandese e costruita grazie al contributo di un milione di dollari della Chiesa metodista tedesca, è un piccolo gioiello. L’alta borghesia di Maputo manda qui i propri rampolli a imparare l’uso del computer, e con le rette dei ricchi vengono pagati gli studi a chi altrimenti sarebbe condannato all’analfabetismo.
E poi c’è il microcredito, la più recente avventura economica di questo instancabile organizzatore. Con i piccoli prestiti, garantiti dalle cooperative, ha realizzato significative esperienze di auto-impiego per la popolazione povera della periferia di Maputo. Qualcuno ha messo su una “barraca” per vendere in città i prodotti della terra, qualcun altro ha puntato su piccole realizzazioni artigiane, altri ancora sono attivi nel campo dei servizi. Piccole attività, piccoli investimenti, piccoli prestiti, puntualmente restituiti grazie ai legami di forte fiducia e solidarietà presenti nel mondo cooperativo, che hanno consentito a centinaia di persone di mettersi in proprio e di produrre un reddito sufficiente per una vita dignitosa. E la cooperativa di risparmio e credito della Ugc è ora pronta a diventare una vera e propria banca.
Il Prosperino che accoglie la delegazione lucana è un uomo provato dalle fatiche e dalla malattia. Il suo corpo imponente mostra qualche segno di appesantimento, il pancione racconta di una vita di sofferenze più che di abitudine alla buona tavola, la barba è quasi del tutto bianca, ma dietro gli occhiali pesanti da miope gli occhi vispi consegnano ancora scintille di entusiasmo.
A settant’anni passati, e vissuti come li ha vissuti lui, non ha perso la voglia di sognare. Sogna la banca per i poveri, sogna lo sviluppo dell’agricoltura con la coltivazione intensiva del cajù, l’anacardio, la sua trasformazione e commercializzazione, sogna importanti progressi nella lotta all’Aids, sogna la nascita di una università per il suo popolo.
La delegazione lucana torna in patria contagiata dall’entusiasmo di Prosperino, e prova a moltiplicare gli sforzi. Bubbico chiama Antonio Tricase e gli suggerisce di fondare una associazione onlus per dare uno strumento in più alla generosità che i lucani hanno finora dimostrato. “Io – racconta Tricase – non sapevo nemmeno che cosa fosse una onlus. Tornato a Matera, chiamai un po’ di amici e ci mettemmo al lavoro”. Nasce così nella primavera del 2003 l’associazione “Basilicata per il Mozambico”, che rappresenta un po’ il collettore della solidarietà verso i frati Prosperino e Triggiante.
“È stato un successo impressionante”, racconta Tricase, che dell’associazione ovviamente è stato eletto presidente. “Io credo che ci abbia messo le mani la Provvidenza. Non riesco a spiegarmi diversamente il fatto che il primo anno in pochi mesi abbiamo raccolto 40 mila euro, e che in due anni siamo arrivati a circa 300 mila euro raccolti e distribuiti alle missioni in Mozambico. È un autentico fiume in piena, che non si arresta”.
Padre Prosperino, intanto, arriva alla conclusione della sua avventura terrena. Una notte di febbraio del 2004 il segnale della fine arriva con un blocco renale. A Maputo non c’è la possibilità di sottoporlo a dialisi. I suoi collaboratori provano a portarlo a Johannesburg, a neppure un’ora di aereo, ma il suo corpo sfibrato non ce la fa.
Il mondo della cooperazione, le sue amatissime donne, i governanti del Mozambico, i tanti amici sparsi per il mondo sembrano volersi stringere in un unico, silenzioso abbraccio.
Due giorni dopo, Walter Veltroni lo saluta dalle colonne dell’Unità con un commosso ricordo che vale più di mille necrologi. “C’è un’immagine che ho di padre Prosperino: lui, persona di una bontà e di una semplicità uniche, in maglietta e con i sandali ai piedi, invitato nel più grande hotel di Maputo per spiegare in una conferenza a ministri e funzionari i risultati raggiunti da queste cooperative”. E aggiunge: “Padre Prosperino era uno di quegli angeli che capita cadano in terra per aiutare chi ha bisogno, per rendere concreti i valori dell’altruismo, della solidarietà, della fratellanza, dei diritti umani”.

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