Rocco Petrone e il bullone lungo mezzo centimetro di troppo

Cape Kennedy, ore cinque del mattino del 16 luglio 1969. Mancano poco più di quattro ore al lancio dell’Apollo 11. Il count-down è nella fase decisiva. Tremila tonnellate di carburante sono già nei capienti serbatoi dei tre stadi del grande razzo Saturn V. Tutto sembra procedere regolarmente. Ma all’improvviso nella grande firing room c’è il panico. Gli addetti al monitoraggio della propulsione avvertono che le immagini trasmesse dai monitor mostrano del fumo bianco inaspettato, una sottile ma pericolosissima perdita di idrogeno liquido sul sistema di alimentazione. In quelle condizioni non è possibile dare l’ok per l’arrivo a bordo degli astronauti che stanno completando la vestizione e sono pronti per raggiungere la rampa di lancio. C’è il rischio di dover quantomeno rinviare il lancio, andando incontro ad una figuraccia planetaria con mezzo mondo collegato via satellite.
Ma per fortuna a capo di tutte le operazioni di lancio c’è un uomo dalle grandi capacità, il carattere forte e i nervi d’acciaio. È Rocco Petrone, e il nome stesso racconta delle sue origini in quell’Italia contadina del sud che ha alimentato la grande emigrazione verso gli States. Petrone è un omone grande e grosso, un metro e novanta per quasi un quintale di peso, con un passato di defensive tackle in una delle più importanti squadre di football e la fama di uomo severo e riservato, disponibile ma rigoroso e inflessibile. Non si perde d’animo. Conosce quel razzo come le sue tasche. In nove anni di lavoro si può dire che abbia testato uno per uno tutti i sei milioni di pezzi con i quali è costruito il Saturn V. Gli basta guardare le immagini nei monitor per decidere cosa fare. Una settimana prima, durante una delle tante prove, aveva notato un dettaglio, a prima vista insignificante. Non lo aveva convinto una valvola nel sistema di alimentazione. L’ha ancora ben presente nella sua proverbiale memoria, e ordina subito agli addetti alla rampa di lancio di andare a controllare esattamente in quel punto che aveva memorizzato.


Si scopre così che un bullone, un piccolo banalissimo bullone dei sei che stringono la valvola, è lungo un quarto di pollice di troppo, poco più di mezzo centimetro. Abbastanza per determinare la non perfetta tenuta della valvola e la piccola fuoriuscita del liquido. Un tecnico addetto alla piattaforma – ah se lo avesse davanti in questo momento! – doveva aver finito i bulloni da un pollice e tre quarti e ne ha peso uno da due pollici, pensando: «Che diavolo, ha lo stesso calibro, non potrà far male!». E invece tutto deve essere estremamente preciso in quella macchina così complessa.
Petrone è consapevole della criticità del momento ma, come sempre nelle occasioni che contano, non perde la sua proverbiale lucidità. «Un viaggio di un quarto di milione di miglia – ricorderà quando i riflettori puntati sulla grande impresa si saranno ormai spenti – stava per essere cancellato per un bolt, un piccolo insignificante dannatissimo bullone del valore di pochi centesimi, lungo un quarto di pollice di troppo. Ma per fortuna sapevamo esattamente cosa fare. I ragazzi avevano imparato a muoversi in presenza di idrogeno liquido, avevamo provato tante volte le manovre di emergenza. Si sono messi al lavoro in sicurezza, hanno sostituito il bullone, hanno stretto tutto. Poi abbiamo provato e riprovato per essere certi che quella valvola facesse esattamente il suo lavoro».
E finalmente le centinaia di ingegneri incollati da giorni al loro posto in sala controllo possono tirare un sospiro di sollievo. Rocco riprende con calma il suo posto al centro del launch management team e comunica che si può andare avanti con le procedure di lancio. Ancora una volta, e la volta decisiva, la mitica Petrone’s Way, il metodo di lavoro conosciuto e temuto dalle migliaia di tecnici di Cape Kennedy, si è rivelata determinante.
Check and double check, era il suo motto: controlli e ancora controlli, per ciascuna delle trentamila procedure che, in cinque mesi di lavoro, erano necessarie per portare dall’assemblaggio del veicolo spaziale al lift-off. E a controllare il tutto c’era sempre lui, Rocco Petrone, la “tigre” di Cape Kennedy o, per gli amici, il “computer con un’anima”.
Rocco Petrone, il direttore del lancio che cambiò la Storia, era figlio di due contadini lucani che erano partiti da Sasso di Castalda, in provincia di Potenza, nel febbraio del 1921, giusto qualche mese prima che l’America con il Quota Act riducesse drasticamente gli arrivi di quelli che i funzionari di Ellis Island chiamavano sprezzanti i south italians, gli italiani del sud. Nato ad Amsterdam, New York, nel 1926, rimase orfano a soli sei mesi. Papà Antonio, che aveva trovato lavoro nelle ferrovie, fu travolto da un treno in un drammatico incidente a pochi passi da casa. Mamma Teresa, rimasta vedova con tre figli tutti ancora in età non scolare, fu tentata di tornare al paese, ripercorrendo a ritroso la rotta della speranza. Ma poi si fece coraggio: il futuro dei piccoli Petrone, nati cittadini americani, doveva essere in America.
Il piccolo Rocco era atteso da una vita di sacrifici, ai quali non si sottrasse. Imponente nel fisico e vivace nell’intelligenza, si pagò gli studi lavorando. Per portare qualche dollaro a casa distribuiva ghiaccio alle famiglie del quartiere. Ma soprattutto si fece notare per le sue grandi capacità, al punto che i professori della high school lo segnalarono al congressman della circoscrizione perché gli garantisse l’appointment per partecipare al concorso di ammissione all’accademia di West Point, concorso che vinse senza problemi. Un cadetto con il nome italianissimo nel 1943, in piena guerra, quando l’Italia era un paese nemico? Fu una fortuna per Rocco, ma anche una grande fortuna per l’America.
Diventato ufficiale dell’esercito americano, completò gli studi al Massachusetts Institute of Technology, dove conseguì il master degree in ingegneria meccanica. Divenne uno dei maggiori esperti di missili e rampe di lancio, al punto che Wernher von Braun, lo scienziato tedesco che aveva lavorato per i nazisti e che alla fine della guerra era passato con gli americani insieme al suo straordinario gruppo di lavoro, lo volle con sé alla Nasa appena si cominciò a parlare del programma per la conquista della Luna.
Petrone, mandato a Cape Canaveral all’inizio degli anni ’60, lavorò alla progettazione e alla costruzione del Saturn V, il più grande razzo mai progettato, e della mitica rampa di lancio 39 da cui partirono gli astronauti verso la Luna. Al culmine di una rapidissima carriera, conquistando la fiducia e il rispetto dei principali dirigenti della Nasa, era diventato il direttore delle operazioni di lancio a Cape Kennedy, cioè il responsabile di tutto il procedimento, dall’allestimento del veicolo spaziale, alla realizzazione delle rampe di lancio, fino alla partenza del veicolo spaziale. Guidava un esercito di quasi ventimila persone, tra dipendenti diretti della Nasa e funzionari dei contractors, le ditte appaltatrici. Per tutti era “la tigre”, un capo che chiedeva sempre la massima efficienza e la risposta efficace per ogni problema. Proibito sbagliare, o, peggio, divagare. «Ne sapeva molto di più di ciascuno di noi», ricordava Ike Rigell, ingegnere capo delle operazioni di lancio. «Se dicevi sinceramente che avevi bisogno di documentarti su una certa questione, ti aiutava con pazienza e rispettava i tuoi tempi. Ma guai ad azzardare risposte imprecise su qualsiasi argomento, perché le probabilità che ne sapesse già più di te erano altissime». Proverbiali le sue “passeggiate” nella sala controllo quaranta minuti prima del lancio. Voleva guardare negli occhi, uno per uno, le centinaia di tecnici al lavoro nelle varie postazioni. Doveva essere il primo a capire se c’erano segni di stanchezza o di distrazione, e prendere immediati provvedimenti. Era sempre il più lucido e il più rassicurante. In sala controllo non si arrabbiava mai. Ma poi, a lancio effettuato, in pochi avrebbero voluto trovarsi nei panni dei malcapitati che venivano invitati a fare “due chiacchiere” nel suo ufficio. Nei periodi più intensi, raccontavano i suoi collaboratori, convocava riunioni anche alle due. E intendeva le due del mattino.
Ma torniamo a quella mattina del 16 luglio 1969 nella sala controllo di Cape Kennedy. Poco prima delle nove Rocco Petrone fece il suo ultimo giro nella firing room. Poi tornò al suo posto di comando al centro della fila A, da dove poteva controllare tutta la grande sala con quasi cinquecento persone al lavoro. Alle nove e dieci, ventidue minuti prima della partenza, cominciò la fase più delicata con l’idrogeno ad alta pressione che cominciava a fluire nei serbatoi e Rocco chiedeva ai suoi uomini, da quel momento in poi, di non staccare mai gli occhi dagli indicatori di pressione e temperatura.
Furono momenti di grande emozione anche per lui, anche se doveva mostrare una grande sicurezza per motivare la squadra.
E venne il momento del «go» all’avventura più straordinaria, il momento atteso per nove anni da una gigantesca squadra di lavoro di quasi cinquecentomila persone sparse in tutta l’America. Impossibile, anche per uno come lui, non cedere all’emozione.
«Al momento del decollo – ricordava – è come assistere a un parto. I secondi prima del lancio, quella manciata di secondi che va dall’accensione dei motori al lift-off, sono quelli che mi hanno sempre messo più agitazione. Non riuscivo a staccare gli occhi da quei cinque bracci meccanici alti più di dieci metri e pesanti alcune tonnellate che dovevano liberare il grande veicolo spaziale. Se uno dei bracci non si fosse spostato il razzo si sarebbe spezzato».
Ma per fortuna tutto andò bene, quella mattina a Cape Kennedy.
E a dare l’ok per questo appuntamento con la Storia ci sarebbe stato proprio lui, Rocco Petrone, l’americano di prima generazione figlio di contadini poveri partiti meno di cinquant’anni prima da un piccolo paese di montagna della lontana Basilicata.

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