A dieci anni dalla morte di Rocco Petrone, l’uomo della luna quasi dimenticato nella sua terra d’origine

Dieci anni fa, il 24 agosto del 2006, moriva all’età di ottant’anni, nel suo buen retiro di Palos Verdes Estates, in California, Rocco Petrone, l’ingegnere meccanico di origine lucana che ha iscritto il suo nome tra i protagonisti di quella che certamente è una delle più grandi imprese nella storia dell’umanità: il primo sbarco dell’uomo sulla luna.
Due sottili occhi di ghiaccio su un fisico imponente da ex giocatore di football, un metro e novanta di altezza per quasi un quintale di peso, zigomi sporgenti, il naso leggermente aguzzo, sguardo intenso, labbra taglienti: chi gli voleva bene amava definirlo “il computer con un’anima”, ma per la gran parte dei suoi collaboratori restava “la tigre”. I cronisti italiani che chiesero di incontrarlo quando arrivarono a Cape Kennedy per seguire le operazioni di lancio dell’Apollo 11, incuriositi dal nome italiano del direttore della missione, si trovarono di fronte questo omone rigoroso e cordiale, che nelle fattezze fisiche e nei modi spicci e cordiali ricordava tanto le migliaia di connazionali partiti nell’ultimo secolo alla ricerca di un mondo migliore, inseguendo il “sogno americano”.
Un sogno cominciato il 31 marzo del 1926, quando Rocco nacque in una piccola casa di immigrati nel cuore di Amsterdam, una cittadina industriale dello Stato di New York. Qui papà Antonio era arrivato cinque anni prima insieme alla moglie Teresa. Veniva da Sasso di Castalda, il piccolo centro della montagna lucana dal quale, nelle limpide notti d’estate, pareva quasi di poter toccare la luna. E la luna infatti sarebbe stata il suo destino.
Papà Antonio trovò subito lavoro nelle ferrovie, ma la sua avventura americana sarebbe durata poco. Sei mesi dopo la nascita di Rocco morì in un incidente sul lavoro.
Dopo un primo momento di sconforto mamma Teresa decise di restare negli Stati Uniti. I suoi figli sarebbero stati americani. E così Rocco ebbe la possibilità di farsi apprezzare per le sue qualità nelle scuole pubbliche di Amsterdam, e a diciassette anni superò la durissima selezione per l’ingresso all’accademia di West Point. Poi due anni al prestigioso Mit, il Massachusetts Institute of Technology di Boston, per conseguire il master in ingegneria. E così, a ventisei anni, era pronto per cimentarsi con quella che cominciava a essere una autentica scommessa per il suo Paese in tempi di “guerra fredda”: lo sviluppo della ricerca e della sperimentazione su razzi e missili balistici.


A Huntsville, in Alabama, il nostro giovane ufficiale fece conoscenza con un altro dei personaggi decisivi di questa storia: Wernher Von Braun. Di origini nobili, grande esperto di missili, durante la seconda guerra mondiale era stato alla testa di quel gruppo di tecnici al servizio di Hitler che avevano progettato le micidiali V2, l’arma segreta che tante distruzioni portò in mezza Europa nei mesi finali del conflitto. Poi, all’arrivo delle truppe di occupazione, si era fatto catturare dagli americani insieme a un centinaio di collaboratori.
Ben presto il figlio di emigrati lucani e il nobile tedesco scoprirono di avere molte cose in comune, a cominciare dai modi spicci, le poche parole e la passione quasi maniacale per la precisione e il lavoro. Sicché, quando il vecchio presidente Dwight Eisenhower creò la Nasa, assegnandole il compito di ingaggiare e vincere la battaglia con l’Unione Sovietica per la conquista dello spazio, affidandone la direzione proprio a von Braun, il barone si ricordò di quel ragazzo con il nome italiano, la memoria di ferro e la disciplina inflessibile. “E allora – disse – tanto per cominciare datemi Rocco Petrone”.
A Cape Canaveral il nostro ufficiale-ingegnere fu impegnato subito nel progetto “Saturno”, il gigantesco missile a tre stadi, alto come un palazzo di 33 piani, destinato a dare la spinta alla navicella spaziale che avrebbe dovuto mandare i primi uomini sulla luna. Un progetto ambizioso, per la cui realizzazione non erano sufficienti le conoscenze scientifiche, il lavoro di migliaia e migliaia di tecnici, e lo stanziamento di svariati miliardi di dollari. Ci voleva qualcosa di più: la capacità di sognare, di indicare un obiettivo a prima vista irrealizzabile, di lanciare il cuore oltre l’ostacolo.
E’ quello che fece John Fitzgerald Kennedy, il presidente della Nuova Frontiera, con il famoso discorso al Congresso del 25 maggio 1961, quando indicò l’obiettivo “nazionale” di conquistare la luna entro la fine del decennio.
Da quel giorno Rocco e i suoi più stretti collaboratori moltiplicarono l’impegno. A lui in particolare il compito più difficile: individuare il moonport, la base di partenza, realizzare le rampe di lancio, costruire il Vab, l’edificio destinato a ospitare la costruzione del gigantesco missile composto da oltre sei milioni di pezzi, addestrare migliaia e migliaia di ingegneri e tecnici, dirigere tutte le operazioni di lancio.
Da quel giorno Rocco il silenzioso divenne il duro, o meglio “la tigre”. Nulla doveva essere lasciato all’improvvisazione, ogni piccolo dettaglio doveva essere valutato, tutti gli addetti ai lavori dovevano essere interrogati direttamente da lui.
Prove, controlli e ancora controlli. Dodici – quattordici ore di lavoro al giorno. E finalmente l’appuntamento con la Storia, fissato per il 16 luglio del 1969 a Cape Kennedy, il giorno del lancio dell’Apollo 11.
A lui, Rocco Anthony Petrone, ingegnere meccanico, direttore delle operazioni di lancio, toccava la parola definitiva, il “go”, per il via alla missione. A lui toccava realizzare, e nel modo più clamoroso, il “sogno americano” di generazioni di emigranti.
L’orologio segnava le 9 e 32. Il programma era stato rispettato al centesimo di secondo. Rocco non aveva distolto lo sguardo nemmeno per un attimo dal monitor, dove all’inizio si videro solo le lingue di fuoco sgorgare dalla coda del razzo, e la nuvola di fumo che avvolgeva la rampa di lancio. Poi, in un attimo, il fragore dell’esplosione giunse fino alle stanze ovattate della sala controllo, e l’aquila meccanica accelerò la sua corsa verso il cielo.
Quattro giorni dopo, Neil Armstrong lasciava sulla luna la prima impronta di un essere umano.
Il successo della missione fu anche e soprattutto il successo di Rocco, che infatti fu subito nominato direttore dell’ intero programma Apollo. Finita l’avventura lunare, lasciò la Nasa nel 1975 per diventare presidente di un importante centro di ricerche. Poi, la pace e il silenzio della casa che aveva costruito per la vecchiaia in California.
E i rapporti con l’Italia e la sua regione d’origine?
A Sasso di Castalda c’è ancora chi ricorda le sue due visite al paese da giovane ufficiale dell’esercito di stanza in Germania. Poi, molti contatti epistolari, qualche telefonata, qualche incontro con i paesani in America. Ai giornalisti che chiedevano di incontrarlo parlava sempre, e con orgoglio, delle sue origini in una povera regione del sud. E abbozzava anche qualche parola in dialetto.
Nel 1993 il Presidente della Repubblica lo nominò commendatore. Quattro anni dopo la facoltà di ingegneria dell’Università della Basilicata gli conferì una laurea ad honorem mai consegnatagli. Al centro dell’Agenzia Spaziale di Matera nel 2014 è stata collocata una targa che ricorda la sua opera. Il Comune di Sasso di Castalda gli ha intitolato la piazza del Municipio, ha istituito un premio di laurea e periodicamente prende qualche iniziativa.
Forse un po’ poco per un grande protagonista della storia dell’umanità in una regione prodiga per molto meno di riconoscimenti, premi, attestati, applausi, onori, macro e micro eventi, beatificazioni e rievocazioni.
Una buona notizia viene, come spesso capita in questi casi, da molto lontano. L’on. Fucsia Fitzgerald Nissoli, deputata eletta nella circoscrizione nord Americana, ha annunciato la sua volontà di promuovere entro l’anno una manifestazione a Montecitorio per ricordare la figura di Petrone a dieci anni dalla morte.

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